Una donna, una nave e il mare

Quando giunse al porto insieme a suo figlio e dovettero imbarcarsi, attraversare indenne la passerella metallica della nave fu liberatorio, per Caterina. Temeva che questa potesse ritirarsi all’improvviso per impedirle di andar via.
– Non farmi scherzi, rimani lì dove sei – pensò.
La passerella obbedì docilmente, non potendo fare altrimenti. Rimase ferma, immobile per lasciar passare Caterina e il prezioso carico che si portava dentro. Un misto di delusione, dolore e voglia di rinascere altrove.
– Poco fa pensavo che non saremmo riusciti a imbarcarci – disse a suo figlio dopo qualche tempo. Erano saliti sul ponte e osservavano le manovre della nave che si apprestava a salpare. Da quella prospettiva sembrava che in realtà fosse la terra a muoversi e ruotare lentamente, per prendere il largo e allontanarsi da loro.
– Perché non avremmo dovuto riuscirci? – chiese Riccardo.
– Non so. Forse mi aspettavo di venire punita per via di questa fuga improvvisa.
Caterina strapazzava nervosamente i bottoni della sua camicetta un po’ troppo leggera, seguendo con lo sguardo le automobili che transitavano sulla strada che si allungava di fronte al porto. Chissà quanti, tra conducenti e passeggeri, avrebbero voluto lasciare ogni cosa e partire, come stava facendo lei.
– Perché mai qualcuno dovrebbe punirti? – fece Riccardo, in un misto di incredulità e divertimento – Certo che a volte ti vengono in testa delle idee davvero strane. E poi non stai mica fuggendo. Non per sempre, almeno. Prima o poi dovrai tornare, no?
– No. Non tornerò.
– Non tornerai – ripeté Riccardo. Voleva essere sicuro di aver afferrato il concetto. Anche se, quando si trattava di sua madre, sapeva che il concetto poteva assumere connotati assai incostanti.
– E che ne sarà di ciò che hai lasciato qui? La casa, il lavoro – era seriamente preoccupato.
– Come vivrai? – aggiunse, cercando gli occhi di sua madre .
Caterina continuava a spingersi, con lo sguardo, verso la terraferma. Come per sfidare, beffeggiare, la forza che sentiva volesse trattenerla. La nave aveva cominciato a prendere il largo e lei capì di aver avuto la meglio. È vero, c’era sempre la possibilità che affondasse, ma non le importava.
- Mi sono imbarcata sulla nave e sono partita, questa è la cosa fondamentale. Se dovessi morire annegata non sarebbe una sconfitta, per me. Morire in mare, un territorio neutro dove le regole della terra non contano, è di per sé una vittoria. Per questo devo attraversarlo. Per poter andare avanti, per provare a ricostruire la mia vita. Se fossi rimasta sull’isola, per quanto lontano mi fossi spinta, non avrei avvertito il distacco. Lo strappo dato dal mare è quello che mi serve – annuì tra sé, per incidere ancor più fermamente quel pensiero nella sua volontà.
Caterina sapeva che quella forza sconosciuta sarebbe rimasta sulle sue tracce per chissà quanto tempo. L’avrebbe cercata, senza alcuna fretta, e le avrebbe riconsegnato la sua vecchia vita come si fa con un oggetto smarrito e dimenticato. Magari proprio quando pensava di essere riuscita a seminarla definitivamente, l’avrebbe ritrovata. “Dove credevi di andare?” Le sembrava di sentirne la voce. Partire era l’unico modo per sbarazzarsene. “Che segua pure il ricordo di ciò che di me è rimasto a terra, girando a vuoto per l’eternità come un maledetto segugio”.
– Come vivrò non è un problema che deve riguardarti – disse Caterina dopo parecchi minuti lasciati scorrere in un silenzio saturo di attesa e di salsedine, che aleggiavano ovunque, impregnando ogni cosa.
Qualsiasi discorso tenuto in quel momento sarebbe rimasto intatto, protetto dall’azione del sale. O chissà, forse in questo caso ne sarebbe stato corroso, per via della delicatissima natura. Ogni frase da pronunciare andava valutata attentamente, per non rischiare di distruggerne il vero intento o, al contrario, di fare in modo che si concretizzasse.
Caterina scelse di non dire nulla, per il momento. Avrebbe portato in salvo i suoi piani, lasciando che vedessero la luce per la prima volta solo dopo essere sbarcata in Grecia. Lì avrebbe trovato un luogo sicuro, e aprendo con delicatezza il barattolo che li conteneva, avrebbe regalato loro la libertà.
Riccardo continuava a fissarla, in attesa di una risposta. Dopo parecchio tempo, stanco di quel silenzio ostinato, afferrò la spalla di sua madre, dandole un forte scossone. Voleva richiamare la sua mente alla realtà di cui lui faceva parte.
Caterina, per niente turbata, si voltò lentamente posando lo sguardo dapprima sul suo braccio, che ancora conservava il tremito della scossa ricevuta, poi sul viso di suo figlio. Rimase ancora in silenzio.
– Credi di poter fuggire dalla realtà. Beh, non puoi farlo. Scappare non ti servirà a nulla – affermò Riccardo, in tono secco. Stava per aggiungere qualcos’altro ma, frastornato dall’impulso che pareva essersi impadronito delle sue labbra, si fermò.
– Sono stato davvero io a parlare? – pensò. Si pentì subito di aver usato un tono così crudele nei confronti di sua madre, dopo tutta la sofferenza che aveva dovuto subire e dalla quale stava cercando una via d’uscita.
– Scusami, non volevo, – si affrettò a dire – ma sono preoccupato per te e non vorrei che la situazione andasse peggiorando, invece di migliorare. Mi rimangerei quelle parole, se fosse possibile.
Si curvò su se stesso, reggendo la testa tra le mani. La sentiva incredibilmente inconsistente. Dopo poco tempo, Caterina si accorse che la schiena di suo figlio, incurvata, aveva preso a sobbalzare e vi posò la mano, perché si stabilizzasse.
– Non importa – disse. – Tu non devi preoccuparti, di niente. Qualunque cosa accada.
Riccardo sollevò il viso rigato di lacrime. Cercò qualcosa negli occhi di sua madre, un indizio, un suggerimento che gli permettesse di comprendere appieno il significato delle sue parole e della sua scelta. Ma non riuscì a scorgere nulla. D’un tratto, infatti, gli occhi di Caterina si chiusero in fessure inespugnabili, quasi avessero catturato un elemento che vi si era soffermato per un tempo eccessivamente lungo, e non volessero lasciarlo andare.
– Un giorno capirai, – disse Caterina – ma ora non è il momento giusto.
Riccardo, ancora più confuso, non obiettò. Si limitò ad annuire accettando la volontà superiore celata in quelle parole. Caterina sorrise serafica e dopo qualche istante aggiunse, con calma:
– Senti? – e così dicendo sollevò la mano che poco prima aveva posato sulla schiena del figlio, indicando il cielo. Lo sguardo vagava senza una meta oltre la superficie azzurra del mare.
Si udirono le voci di numerosi gabbiani che arrivavano da lontano, in volo. Molte di esse erano andate disperse nel percorrere le distanze che separavano le terre. Erano cadute improvvisamente, come gocce di pioggia sul mare. Lui le aveva reclamate, chiamate a sé per nutrirsi di loro.
Caterina le udì mentre andavano a fondo e venivano inghiottite in quel tutto: là si fusero in numerosi fili afferrati repentinamente da misteriose mani femminili che, in un sol gesto, ne fecero trama della vita di là da venire. Ma questo Caterina non poteva saperlo, perciò in cuor suo si rivolse alle acque scure del mare aperto.
– Prendi anche le sue parole, ti prego. Tu sei l’unico che può tramutarle in qualcosa di buono. Così come sono non possono esistere. Lo sai, vero?
Si alzò dalla panchina per allontanarsi da suo figlio, che provò a richiamarla a sé ancora una volta.
– Mamma! Stai bene?
Caterina rispose con un sorriso serafico, intonando un motivo allegro improvvisato sul momento, le labbra serrate.
Poi non disse più nulla, o almeno, niente che Riccardo potesse udire.
Per tutta la durata del viaggio, infatti, parlò solo con il mare, che a sua volta non disse niente che Caterina potesse comprendere. Ciononostante lei fece tesoro di ogni frammento del loro incessante dialogo.
– Prima o poi capirò – si disse, e lo disse anche al mare.
La nave procedeva sulla sua rotta, scivolando senza intoppi sulle parole di Caterina e di Riccardo, sui loro pensieri e sui loro intenti. Il mare non si curò di tutto ciò. Li lasciò passare sapendo che, in un modo o nell’altro, li avrebbe incontrati ancora.

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